Lavorando tra pittura, fotografia, ceramica, scultura, performance e installazione, Fallahpisheh tesse una narrazione che è in parte allegoria, in parte favola. Un cast ricorrente di un essere umano, un topo, un gatto e un cane formano un’unità quasi familiare che a volte si sente nostalgica e domestica, ma spesso vira verso l’intrappolamento e la violenza, suscitando domande sull’appartenenza, sul conflitto e sull’ansia. La mostra, che si svolge in tutte e quattro le gallerie superiori del CCA, è incentrata sulle idee sulla libertà: i suoi simbolismi, le protezioni e le contingenze. Gabbie a grandezza naturale interrompono l’esperienza espositiva, separando l’opera d’arte dallo spettatore. Il titolo della mostra fa riferimento al concetto tedesco di Vogelfrei, che letteralmente significa “libero come un uccello”, ma che è stato corrotto nel tempo per significare “senza diritto, senza protezione, fuorilegge”, come definito dal filosofo italiano Giorgio Agamben. Intrappolando letteralmente sia lo spettatore che le sue opere d’arte, Fallahpisheh suggerisce che la libertà è sempre una posizione contraddittoria che si basa sullo stato prigioniero o non protetto degli altri.
Fallahpisheh presenta anche la camera oscura come prigione, riferendosi ai lunghi periodi di isolamento oscurato che richiedono i suoi dipinti fotografici. Disegnando su carta fotosensibile con gel colorati e una torcia, l’artista lascia gran parte del suo lavoro al caso e all’improvvisazione, non sapendo quali colori potrebbero emergere fino alla fine. La fotografia senza macchina fotografica diventa una performance, enfatizzando la completa dipendenza dalla luce nell’oscurità per produrre immagini. In questo modo, il processo di Fallahpisheh fa riferimento a come i traumi passati vengono portati alla luce attraverso la terapia e l’esposizione. I suoi personaggi antropomorfi, che spesso appaiono intrappolati nelle case, presentano una sorta di famiglia post-Disney, il cui stile deliberatamente ingenuo riflette una dipendenza infantile dalle strutture di potere e dalle gerarchie. Trasgressive e irrazionali, queste figure sollevano interrogativi sulla struttura della famiglia e sulle sue nozioni intrinseche di armonia e contenimento. Fallahpisheh gioca con il potere innato di certi oggetti per indurre ricordi d’infanzia. Un certo numero di trapunte antiche degli anni ’20 fungono da sfondi o cornici per i dipinti fotografici. Portano calore e un senso di domesticità alle opere, evocando il senso di un corpo ma anche un caratteristico arredamento d’interni e cimeli di famiglia. La mostra presenterà anche opere in ceramica che virano tra forme umane e totem precariamente impilati. La dura fragilità delle ceramiche contrasta nettamente con il loro aspetto malleabile, con vasi piegati, bilanciati, incastrati tra loro e imbottiti di peluche. Gli animali di peluche, spesso in vari stati di angoscia, e gli accessori alla moda servono come cenni alla cultura pop e all’intimità della nostalgia, e si interrogano su come la nostalgia possa deformare i confini tra memoria e immaginazione.
a Goldsmiths CCA, Londra
fino al 18 settembre 2022