News

Goya e Caravaggio tra verità e ribellione: un incontro ai Musei Capitolini - Roma

Goya e Caravaggio tra verità e ribellione: un incontro ai Musei Capitolini – Roma


Roma – Un gentiluomo, un ombrello nella mano destra, protegge dal sole una giovane donna seduta su un prato.
La maja, stretta in un abito di foggia francese, sorregge sul grembo un cagnolino mentre il fidanzato le fa ombra con il parasole. Le due figure sono disposte secondo un impianto piramidale, mentre lo sfondo alle loro spalle è privo di profondità.

Quello della sombrilla (parasole), è un tema molto ricorrente nella cultura del tempo, presente in numerosi quadri e romanzi.
Il pittore spagnolo Francisco Goya eseguì l’opera tra il 3 marzo e il 12 agosto 1777, giorno in cui la consegnò alla Real Fabrica di Santa Barbara. La retribuzione piuttosto bassa che gli fu consegnata lascia pensare che l’opera sia stata sottostimata, probabilmente a causa dello scarso numero di personaggi e dell’assenza di una quinta paesistica attentamente descritta.

I protagonisti di questo innocente gioco amoroso, galante – impregnato, grazie alla luminosità, vivificata dai rossi, gialli e azzurri disciolti, di quella joie de vivre che allude all’illuminato regno di Carlo III di Spagna – saranno a Roma dal 12 gennaio al 25 febbraio, ospiti d’onore nella Sala Santa Petronilla dei Musei Capitolini.


Michelangelo Merisi da Caravaggio, Buona Ventura, Olio su tela, 115 x 150 cm, Roma, Pinacoteca Capitolina

La tela, concessa in cambio dell’ Anima beata di Guido Reni, prestata all’istituzione spagnola in occasione della mostra Guido Reni al Prado fino 9 luglio, dialogherà con La Buona Ventura di Caravaggio, offrendo ai visitatori uno spunto di riflessione
sui due grandi maestri, a cura di Federica Maria Papi.

L’intento è quello di accostare due altissimi interpreti della società del proprio tempo che nella loro pittura hanno saputo introdurre rivoluzionarie novità iconografiche e stilistiche.

Realizzato come cartone preparatorio per uno dei dieci arazzi destinati a decorare la sala da pranzo del Palazzo del Pardo a Madrid, tra il 1856-1857, Il parasole fu trasferito al Palazzo Reale di Madrid e nel 1870, per ordine reale, entrò a far parte delle collezioni del Prado.
La vista prospettica dal basso verso l’alto e il suo formato indicano che la tela era destinata a decorare una soprafinestra. L’arazzo risultante da questo cartone era appeso nella sala da pranzo dei principi delle Asturie (il futuro Carlo IV e sua moglie María Luisa de Parma) nel Palazzo El Pardo di Madrid. La serie di cui fa parte era composta da dieci arazzi di soggetto “campestre” (tutti conservati al Museo del Prado).


Francisco Goya, Il parasole, 1777, Olio su tela, Madrid, Museo del Prado

All’occhio di chi osserva spicca l’impiego del rosso puro, colore applicato direttamente sulla tela, tecnica che prelude gli sviluppi futuri della pittura romantica, se non addirittura di quella impressionista.
Secondo alcuni critici Goya potrebbe aver avuto come modello Vertumno e Pomona, un’opera del pittore francese Jean Ranc, ora al Musée Fabre di Montpellier, trasformando il soggetto mitologico in una scena di vita moderna.

 Leggi anche:
• Da Goya a Keith Haring, il 2024 dei Musei Civici di Roma



Source link

La settimana in tv, da Leonardo all'Arte Povera

La settimana in tv, da Leonardo all’Arte Povera



Andrea del Verrocchio e Leonardo da Vinci, Battesimo di Cristo, 1475 ca, Tempera e olio su tavola, 177 x 151 cm, Firenze, Gallerie degli Uffizi

Dalla nascita del “Cartel de Cine”, una forma artistica ricca di sorprendenti proposte grafiche, ai protagonisti dell’Arte Povera, la settimana appena cominciata, che chiude il lungo ponte delle festività, è ricca di proposte diversificate per gli appassionati dell’arte sul piccolo schermo.

Su Rai 5 i protagonisti di “Cine Libre”
23 marzo 1959. A 83 giorni dall’ingresso di Fidel Castro a L’Avana, ancor prima della ridistribuzione delle terre e della nazionalizzazione delle imprese straniere, il governo rivoluzionario fonda l’ICAIC, l’Istituto Cubano di Arte e Industria Cinematografiche, che getta le basi di un nuovo cinema. Se Cesare Zavattini è il primo a scrivere copioni coi giovani registi cubani e Joris Ivens insegna ai soldati cubani come fare riprese di guerra usando macchine da presa di legno, a girare il primo film rivoluzionario saranno Otello Martelli e Arturo Zavattini reduci dalle riprese de La Dolce Vita.


“Cine Libre”, Backstage | Courtesy Rai 5

Con il sopraggiungere dell’embargo americano Hollywood scompare dalle sale cinematografiche cubane che si aprono al cinema d’autore di tutto il mondo. Anche le locandine originali vengono eliminate perché troppo commerciali e un gruppo di giovani disegnatori si propone di rifarle da zero. Più che sedurre lo spettatore con i volti delle star, il nuovo manifesto vuole attrarlo con un linguaggio metaforico stimolandone il pensiero critico. Nasce così il Cartel de Cine, una nuova forma artistica, libera da convenzioni pubblicitarie e ricca di sorprendenti proposte grafiche. Questa tradizione prosegue ancora oggi a Cuba grazie a un gruppo di artisti, eredi di quei maestri. Tra questi, i membri di El Nocturnal, che sono anche i protagonisti di “Cine Libre” di Adolfo Conti ed Elia Romanelli, un documentario prodotto da Doc Art in collaborazione con Rai Cultura, che andrà in onda mercoledì 10 gennaio alle 21.15 sul programma di Rai 5, Art Night.
Michelle, Edel, Raupa e Nelson ripercorreranno una storia avvincente attraverso le tavole di una graphic novel, unendole a testimonianze, racconti personali e immagini di archivio.

Da Leonardo all’Arte Povera: gli appuntamenti di Sky Arte
Dalla graphic novel alla pittura. L’Autoritratto con cappello di feltro grigio di Vincent van Gogh è il capolavoro protagonista del terzo episodio de Masterpiece – L’arte svelata, in onda mercoledì 10 gennaio alle 12.45 su Sky Arte, mentre sabato 13 gennaio alle 13.30 Leonardo e Verrocchio alzeranno il sipario sulla Firenze di Lorenzo il Magnifico che vede la fioritura di capolavori realizzati da Verrocchio e dai suoi allievi: Perugino, Ghirlandaio e soprattutto Leonardo da Vinci.
Al centro della narrazione c’è il rapporto tra il pittore fiorentino e il suo allievo, dall’apprendistato del giovane Leonardo al debito artistico che lo lega al suo maestro.

Giovedì 11 a finire sotto i riflettori di Inspired, la serie dedicata al legame imprescindibile tra gli artisti e i luoghi che accolgono il loro lavoro, è Keith Haring, la cui carriera fulminea si sviluppò tra la concitata vita newyorkese degli anni Ottanta e le rilassate atmosfere del Brasile. In un piccolo villaggio di pescatori lungo la costa brasiliana, Haring trascorse del tempo con un gruppo di amici artisti, realizzando murales e disegnando, ispirato dai paesaggi e dagli abitanti del luogo.


Arte Povera – Appunti per la storia, di Andrea Bettinetti I Courtesy Sky Arte

Era il 23 novembre 1967 quando il critico d’arte genovese Germano Celant pubblicava il manifesto Arte Povera, appunti per una guerriglia, criticando il sistema che, in quegli anni, aveva ridotto gli artisti a meri produttori di oggetti. A oltre cinquant’anni da quella pubblicazione, Sky Arte ripercorre la nascita e l’evoluzione della corrente artistica “povera” attraverso il documentario diretto da Andrea Bettinetti, dal titolo Arte Povera – Appunti per la storia. In onda domenica 14 gennaio alle 16.30 la pellicola racconta la genesi di uno dei movimenti più sovversivi dell’arte italiana attraverso le voci di alcuni massimi esponenti, da Michelangelo Pistoletto a Giovanni Anselmo, fino a Gilberto Zorio a Beatrice Merz, passando per Giulio Paolini, Giuseppe Penone, Pier Paolo Calzolari, Lia Rumma.



Source link

70 anni di Bruno Munari presto in mostra alla Magnani-Rocca - Parma

70 anni di Bruno Munari presto in mostra alla Magnani-Rocca – Parma


Parma – Per Pierre Restany era il Leonardo e il Peter Pan del design italiano.
Ed in effetti Bruno Munari, che aveva iniziato la propria attività intorno al 1927, durante il cosiddetto Secondo Futurismo, maneggiò con abili doti tutti campi della creatività, dall’arte al design, dalla grafica alla pedagogia.
La Fondazione Magnani-Rocca di Mamiano di Traversetolo gli renderà omaggio dal 16 marzo al 30 giugno con la più grande mostra italiana dedicata a una delle più iconiche figure del design e della comunicazione visiva del XX secolo, realizzata dopo le esposizioni memorabili della Rotonda della Besana (2007) a Milano, e dell’Ara Pacis (2008) a Roma.

Proprio per la difficoltà di distinguere chiaramente i territori linguistici affrontati nel corso del tempo, la rassegna non sarà suddivisa per tipologie o per cronologia, ma per attitudini e concetti, in modo da fare addentrare il pubblico tra i collegamenti e le relazioni progettuali tra oggetti anche apparentemente molto diversi l’uno dall’altro.
Il percorso espositivo, a cura di Marco Meneguzzo, caratterizzato da 250 opere, abbraccerà 70 anni di idee e lavori realizzati dal “perfettissimo” Munari, al centro della scena milanese degli anni cinquanta-sessanta caratterizzata dal boom economico che assiste alla nascita figura dell’artista operatore-visivo, consulente aziendale, partecipe della rinascita industriale italiana del dopoguerra.


Bruno Munari, 1950 | Foto: © Federico Patellani

Opere d’arte, grafica, oggetti in mostra rispondono a un metodo progettuale che si va precisando con gli anni, con i grandi corsi nelle università americane e con l’ambizioso progetto dei laboratori per stimolare la creatività infantile, dal 1977 tuttora all’avanguardia nella didattica dell’età prescolare e della prima età scolare.

“Munari – spiega Meneguzzo – è una figura molto attuale nella società liquida odierna, nella quale non ci sono limiti fra territori espressivi. È un esempio di flessibilità, di capacità di adattamento dell’uomo all’ambiente. Il suo metodo consiste nello scoprire il limite delle cose che ci circondano e di volerlo ogni volta superare”.

Primus inventor della macchina aerea (1930), primo mobile nella storia dell’arte, e delle macchine inutili – oggetti appesi, dove tutti gli elementi sono in rapporto armonico tra loro, per misure, forme, pesi – creatore, insieme a Gillo Dorfles, Gianni Monnet, Galliano Mazzon e Atanasio Soldati, del Movimento Arte Concreta, Munari sarà protagonista di un ricco catalogo con un saggio del curatore Meneguzzo (insieme a Stefano Roffi, direttore scientifico della Fondazione Magnani-Rocca), che abbraccia inediti contributi critici.

 Leggi anche:
• Bruno Munari. Tutto



Source link

Storia di un capolavoro. Lo Studio rosso di Matisse dal MoMa alla Fondation Vuitton - Mondo

Storia di un capolavoro. Lo Studio rosso di Matisse dal MoMa alla Fondation Vuitton – Mondo



Henri Matisse, The Red Studio, 1911. Oil on canvas, 181 x 219.1 cm. Mrs. Simon Guggenheim Fund, The Museum of Modern Art, New York. © Succession H. Matisse/VISDA 2023

Mondo – Nel 1911, quando fu dipinto, l’Atelier rouge (Studio rosso) di Henri Matisse passò sostanzialmente inosservato. Trentotto anni dopo, nelle sale del MoMa, per la tela sarebbe iniziata una seconda vita. Per gli artisti di New York l’Atelier rouge diventò una sorta di polo di attrazione e il mondo ne scoprì improvvisamente la radicale novità. Alla fine degli anni Quaranta lo stesso Matisse fece riferimento a ciò che lo rendeva unico: l’inquietante prevalenza del colore rosso e la singolare resa dello spazio lo facevano assomigliare a un’opera astratta, a dispetto della rappresentazione precisa di mobili, quadri e oggetti.
 
A 70 anni dalla morte di Henri Matisse, questa primavera la Fondation Louis Vuitton di Parigi gli renderà omaggio con una mostra incentrata sulla genesi e sulla storia dell’ormai celebre dipinto. Nato dalla collaborazione con il MoMa e lo Statens Museum for Kunst – Galleria Nazionale di Copenaghen, il progetto offrirà la rara occasione di ammirare il capolavoro di Matisse in Europa, per la prima volta accanto agli oggetti e ai quadri che vi sono rappresentati.
 
“Ora che ha più di 110 anni, l’Atelier rouge è una pietra miliare nella secolare tradizione dei dipinti in studio, ma anche un’opera fondamentale nella storia dell’arte moderna”, afferma Ann Temkin, capo curatore del MoMA. “Il quadro rimane un termine di paragone ineludibile per qualsiasi artista che si assuma il compito di ritrarre il proprio studio. La decisione radicale di Matisse di saturare la superficie dell’opera con uno strato di rosso ha affascinato generazioni di studiosi e artisti, tra cui Mark Rothko ed Ellsworth Kelly (protagonista dell’altra grande mostra in programma alla Fondation Louis Vuitton nel 2024, n.d.r.). Eppure resta ancora molto da esplorare in termini di origine e storia del dipinto”.
 
La grande tela dello Studio rosso (260 x 390 centimetri) rappresenta l’atelier di Matisse a Issy-les-Moulineaux, un sobborgo di Parigi, riproducendo opere d’arte, mobili e oggetti presenti al suo interno nel 1911. A commissionarla all’artista fu Sergei Shchukin, il suo mecenate più fedele e coraggioso, come parte di una più ampia sequenza di dipinti. Shchukin acquistò con entusiasmo l’Atelier rose, realizzato poco prima, ma rifiutò l’Atelier rouge. Il dipinto rimase perciò in possesso di Matisse per 16 anni e viaggiò per mostre tra Londra e l’America, prima di essere acquistato da un gallerista britannico e, passando di mano in mano, approdare finalmente al MoMa.


Henri Matisse, Grande interno rosso, 1948. Olio su tela, 146×97 cm. Collection Centre Pompidou, Paris Musée national d’art moderne – Centre de création industrielle. Photo : © Centre Pompidou, MNAM- CCI/Philippe Migeat/Dist. RMN-GP © Succession H. Matisse by SIAE 2015 

In un intrigante gioco di specchi, alla Fondation Louis Vuitton lo vedremo dialogare con gli oggetti reali raffigurati al suo interno e sopravvissuti al tempo: sei dipinti, tre sculture e un piatto di ceramica decorato da Matisse (in primo piano sulla tela), alcuni dei quali recentemente riscoperti e per la prima volta riuniti dai tempi di Issy-les-Moulineaux. Creati tra il 1898 e il 1911, i pezzi spaziano da quadri celebri come Il giovane marinaio – che sarà esposto in Francia per la prima volta dopo 31 anni – a opere meno conosciute, come Corsica, Il vecchio mulino del 1898. In mostra anche Bagnanti del 1907, Lusso (1907-8) e Nudo con sciarpa bianca (1909), provenienti dal SMK di Copenaghen. Lettere e fotografie riveleranno nuove informazioni sul soggetto e sulla storia dell’Atelier rouge, mentre un video racconterà le scoperte più recenti sui processi creativi all’origine del gioiello del MoMa.
 
Completeranno il racconto dipinti e disegni collegati allo Studio rosso, come la Finestra blu (1913) e Grande interno rosso del 1948, un altro capolavoro iconico che mostra come quasi quarant’anni dopo Matisse sia tornato sul suo pionieristico progetto: da allora le due opere sembrano aver condotto vite parallele, diventando fonti di ispirazione per artisti americani ed europei.  
 
La mostra Matisse. L’Atelier rouge sarà visitabile presso la Fondation Louis Vuitton dal 7 maggio al 9 settembre 2024, in concomitanza con le Olimpiadi di Parigi e in contemporanea con Ellsworth Kelly, Forme e colori, 1949-2015, dedicata al celebre protagonista dell’Hard Edge Painting e del Minimalismo.

Leggi anche:
• Un grande Matisse è in arrivo alla Fondation Beyeler
 
 
 



Source link

Cento anni di Surrealismo in una mostra itinerante, da Bruxelles agli States – Mondo



Salvador Dalí, The Temptation of Saint Anthony, (1946), Brussels, Royal Museums of Fine Arts of Belgium | Foto: © J. Geleyns – Art Photography © Fundació Gala – Salvador Dali – SABAM Belgium

Mondo – Dal Belgio agli States, lo spartito surrealista dominato dall’ignoto, dal sogno, dal subconscio e da uno straordinario progetto di liberazione sul piano creativo e sociale, guiderà una grande mostra internazionale itinerante.
Tutto avrà inizio il 21 febbraio al Royal Museums of Fine Arts of Belgium dove, fino al 21 luglio, un percorso concepito in stretta collaborazione con il Centre Pompidou di Parigi accoglierà i più illustri nomi del movimento, da Max Ernst a Giorgo de Chirico, da Salvador Dalì a Dorothea Tanning e Leonor Fini.
A un secolo esatto dalla pubblicazione del Manifesto surrealista, nel 1924, a Bruxelles una mostra esplorerà il movimento da una prospettiva simbolista, attraverso oltre 130 opere d’arte, tra dipinti, opere su carta, sculture, assemblaggi e fotografie che celebreranno il centenario della nascita in un contesto europeo.


Giorgio De Chirico, Premonitory portrait of Guillaume Apollinaire, 1914, Paris, Centre Pompidou, Musée national d’art moderne Centre de création industrielle © Sabam Belgium, 2024, Centre Pompidou, MNAM-CCI

Il viaggio in un universo fatto di maghi, papesse, tarocchi, serpenti, esseri androgeni, dal titolo IMAGINE! 100 Years of International Surrealism, a cura di Francisca Vandepitte, inviterà gli ospiti del museo belga a concentrarsi sulle connessioni e sulle somiglianze, ma anche sulle linee di frattura tra surrealismo e simbolismo, uno dei suoi precursori.

Dal 1880 in poi, infatti, Bruxelles fu un eccezionale ritrovo di arti e avanguardie, come dimostrano le mostre dei circoli “Les XX” e “La Libre Esthétique”. Il simbolismo, incarnato in particolare da Rops, Spilliaert, Khnopff, Delville e Minne, conobbe in città un rapido sviluppo, anticipando ampiamente l’emergere e il diffondersi del movimento surrealista che solo alcuni decenni dopo avrebbe avuto i suo fulcro a Bruxelles.
Nonostante la frattura culturale causata dalla prima guerra mondiale, i simbolisti più anziani e i giovani emergenti non furono mai fondamentalmente distanti gli uni dagli altri.


René Magritte, The acrobat’s ideas, 1928, Bayerische Staatsgemäldesammlungen – Sammlung Moderne Kunst in der Pinakothek der Moderne München

Dopo Bruxelles e il Centre Pompidou di Parigi, la mostra si sposterà all’Hamburger Kunsthalle di Amburgo e alla Fundación Mapfré di Madrid, prima di travalicare l’Oceano alla volta del Philadelphia Museum of Art.
Ciascuna istituzione partner ospiterà il nucleo della mostra itinerante arricchendolo e valorizzandolo attraverso il proprio patrimonio museale.


Salvador Dali, Soft Construction with Boiled Beans (Premonition of Civil War), 1936, Philadelphia © Philadelphia Museum of Art (Pennsylvania), The Louise and Walter Arensberg collection



Source link

Nostalgia. Storie ed espressioni di un sentimento in una mostra a Genova - Genova

Nostalgia. Storie ed espressioni di un sentimento in una mostra a Genova – Genova



Cristoforo Marzaroli, Nostalgia (esposta a Firenze nel 1865 e poi all’Esposizione universale di Parigi), 1864, gesso, Complesso monumentale della Pilotta Galleria Nazionale di Parma

Genova – Ha ispirato ritorni, dettato versi, alimentato miti, dall’antichità ai nostri giorni.
Adesso la nostalgia, sentimento declinato nelle sue forme polisemiche, dal Rinascimento a oggi, diventa il binario di un interessante viaggio espositivo a cura di Matteo Fochessati, conservatore della Wolfsoniana di Genova, in collaborazione con Anna Vyazemtseva, atteso a Genova dal 24 aprile al 1° settembre.

Nostalgia. Storie ed espressioni di un sentimento dal Rinascimento all’arte concettuale è il titolo della mostra in programma a Palazzo Ducale, un’avventura interdisciplinare che chiama a raccolta tutte le arti, dalla pittura alla scultura, dall’architettura alla fotografia, facendo dialogare epoche diverse.
Era stato l’alsaziano Johannes Hofer, giovane laureando in medicina, a identificare nel 1688 il sentimento della nostalgia, interpretata come patologia clinica. Nella sua Dissertatio medica de ΝΟΣΤΑΛΓΙΑ pubblicata a Basilea aveva classificato i malesseri fisici e psichici patiti dai soldati svizzeri durante le trasferte militari come conseguenza ed effetto della loro lontananza da casa. La definizione tedesca heimwehe rimarcava la lontananza dal proprio luogo d’origine come causa di questo stato di sofferenza fisica ed emotiva.
Questa patologia, che ci piace forse di più collegare alle due radici di origine greca, nostos (ritorno a casa) e algos (dolore) fu analizzata anche da Immanuel Kant in riferimento alle trasferte militari.


Jan II Brueghel il Giovane, Adamo ed Eva nel paradiso terrestre, 1640 c., Olio su tavola, Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana

Il percorso, che parte dal Rinascimento per approdare ai giorni nostri, abbraccerà circa 120 opere, a partire dalla Dissertatio Medica de ΝΟΣΤΑΛΥΙΑ di Johannes Hofer dalla Biblioteca università di Basilea. I capolavori d’arte di Otto e Novecento si confronteranno con opere di artisti come Yves Klein, Lucio Fontana, Ettore Spalletti, fino ad arrivare ad Anish Kapoor. Sentimento ambivalente che, alla maniera di un flusso carsico, riaffiora ciclicamente riaffermandosi, nel corso della storia, in tutte le sue mutevoli forme ed espressioni, individuali e collettive, la nostalgia ha un’anima complessa. Per questo più che inquadrarla in un percorso cronologico la mostra la declina in nove sezioni tematiche che rendono più vivace il discorso interdisciplinare.

“La complessità temporale che connota la nostalgia – spiega il curatore della mostra, Matteo Fochessati – impedisce di costruire un percorso cronologico. La nostalgia fa riferimento a qualcosa accaduto nel passato e c’è sempre un corto-circuito tra presente e passato. Esiste poi una nostalgia del presente, cara a Borges, e addirittura una nostalgia del futuro”.

Le opere in mostra arriveranno a Genova da diverse istituzioni museali italiane e straniere, dal Complesso monumentale della Pilotta Galleria Nazionale di Parma, al MART – Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Rovereto, dal Musée des Beaux-Arts di Lione a The Wolfsonian–Florida International University (The WFIU) di Miami, oltre che da alcune collezioni private.


Francesco Hayez, Ritratto di Carlo Prayer nel personaggio di Alp (Il rinnegato veneto), 1832, Olio su tela, Collezione privata

“Questa esposizione – prosegue Fochessati – ha un taglio molto “wolfsoniano” perché riflette questa poliedrica collezione nata per raccontare delle storie: la storia dei cambiamenti sociali, politici, economici, delle arti. La mostra è quindi il frutto di una stratificazione di interessi e di ricerche che ho sviluppato in questo periodo come conservatore della wolfsoniana. Ad esempio i temi dell’esotismo, la nostalgia dell’antico sono aspetti investigati in questi anni. Ho pensato che una mostra potesse svilupparsi su diversi binari che declinassero delle forme polisemiche della nostalgia. Abbraccia i personaggi simbolici e paradigmatici, da Odisseo a Demetra che piange per la perdita di Persefone, e tutti quei letterati che si sono occupati di questo sentimento, da Dante a Foscolo, da Leopardi a Mazzini”.

Il percorso sarà quindi scandito in sezioni. C’è la “nostalgia di casa” che accomuna i milioni di rifugiati – in fuga nel corso del ventesimo secolo dalle persecuzioni politiche e religiose scatenate da regimi dittatoriali – agli emigranti italiani che, tra Otto e Novecento, varcarono l’Oceano in cerca di fortuna. E c’è la “nostalgia del paradiso”, vissuto in diverse epoche nei confronti di una nuova Arcadia, luogo di origine, ma anche ambientazione di un’irrecuperabile dimensione di purezza e serenità.

In mostra non mancheranno le opere dei Futuristi, artisti decisamente agli antipodi della nostalgia, ma che talvolta cedono a questo sentimento. Genova magazzino di nostalgia, realizzata da Fortunto Depero in partenza per New York proprio da Genova, affiancherà quindi Vento di nostalgia di Tullio Crali.


Gerhard Munthe, Le figlie delle luci del Nord (Aurora Boreale), anni 1920 su disegno del 1892, arazzo cotone e lana, The Wolfsonian–Florida International University, Miami

Il percorso sfodererà capolavori come L’ Odyssée di Ingres dal Musée des Beaux-Arts di Lione, allegoria dell’Odissea, un autoritratto come Odisseo di de Chirico, Demetra in lutto per Persefone della pre-raffaellita Evelyn De Morgan, il ritratto di Leopardi di Domenico Morelli, la Servitù d’Israele di Caimi. Tra le opere d’arte antica ammireremo un Brueghel il Giovane, Adamo ed Eva nel paradiso terrestre, e un dipinto rinascimentale di Benedetto Bembo, la Madonna dell’umiltà che abbellirà la sezione della nostalgia del Paradiso.
“Qui tra l’altro esporremo un tappeto di manifattura egizia del XVI secolo” anticipa Fochessati.

La nostalgia frugherà quindi nelle fotografie di Florence Henri, tra le opere di architettura come la maquette in bronzo del padiglione italiano all’Expo di Parigi del 1925 di Armando Brasini, e ancora tra i progetti di Edwin Lutyens, architetto inglese che ha progettato la Casa del Vicerè a Nuova Delhi, presenti nella sezione dedicata alla nostalgia al tempo della propaganda. La scultura si farà largo con opere di Arturo Martini e inserti di arti decorative come la Capanna per l’Agro Romano in terracotta di Duilio Cambellotti o un piatto di Giò Ponti.


Louis Auguste Gustave Doré, Il Circo di Gavarnie, 1882, acquerello su carta, Ville de Pau Musée des Beaux-Arts, Deposito del Musée Pyrénéen de Lourdes

A enfatizzare l’anima contemporanea del progetto sarà anche il tema delle migrazioni. Da Villa Mimbelli arriverà a Palazzo Ducale il dipinto Gli emigranti di Raffaello Gambogi, del 1894, a confronto con l’artista albanese Adrian Paci.
Le sezioni dedicate alla “nostalgia della felicità” e dell’infinito chiuderanno il progetto. In epoca romantica il mistero della natura, popolata nella sua immensità da arcane memorie, diventa un luogo simbolico di rievocazione di miti antichi e di indistinte rimembranze.

“Proprio in quest’ultima sezione – conclude il curatore – un dipinto di Gustave Doré e la Veduta della volta chiamata Le Chapeau du glacier des Bois e delle cime dello Chamoz di Jean-Antoine Lincke dialogheranno con l’Uovo nero di Lucio Fontana, con i Monocromi di Spalletti e di Yves Klein e con Le stelle, bronzo di Arturo Martini, dove alcuni personaggi rivolgono il loro viso al cielo”.

La mostra sarà accompagnata da un catalogo di Electa nel quale alcuni studiosi affrontano la nostalgia attraverso chiavi di lettura di altre discipline, tra storia, sociologia, letteratura.



Source link

La Forma Urbis torna visibile dopo un secolo. Al Parco archeologico del Celio ecco la Roma di 1800 anni fa – Roma


Roma – È uno dei dei più rari documenti giunti a noi dall’antichità, che restituisce un panorama unico del paesaggio urbano di Roma antica, di nuovo visibile al pubblico dopo un secolo.
Eccola la Forma Urbis severiana, realizzata tra il 203 e il 211 d.C, ricavata da un grande rilevamento catastale della città, riprodotto in modo semplificato, e da oggi, 12 gennaio, fiore all’occhiello del nuovo Museo della Forma Urbis (allestito nell’ex palestra della GIL) all’interno del Parco Archeologico del Celio che ha appena aperto i battenti.

Questa monumentale cartina di marmo abbracciava nella sua integrità, su una superficie di quasi 235 metri quadrati, circa 13.550.000 metri quadrati di città antica attraverso sottili incisioni che raffiguravano le planimetrie degli edifici di Roma.


Colonna con iscrizione di cava, Parco archeologico del Celio

Questa pianta marmorea incisa su 150 lastre di marmo applicate alla parete con perni di ferro, originariamente in bella mostra sulla parete di un’aula nel Tempio della Pace, aveva probabilmente una funzione di propaganda e di celebrazione del potere, fornendo all’osservatore una visione generale della città e dei suoi grandiosi monumenti, le cui sagome erano facilmente individuabili anche grazie all’uso del colore. Dopo la scoperta, nel 1562, e la lunga permanenza a Palazzo Farnese, molti frammenti andarono perduti e dispersi, mentre alcuni riemersero nel corso del tempo. Le lastre finirono in parte frantumate e la pianta di marmo dal 1742 entrò a far parte delle collezioni dei Musei Capitolini.
Quello che rimane oggi è circa un decimo del totale della pianta. L’ultima esposizione complessiva degli originali era stata realizzata tra il 1903 e il 1924 nel giardino del Palazzo dei Conservatori; poi, fino al 1939 alcuni nuclei significativi sono stati visibili nell’Antiquarium del Celio.


Rilievo con ritratti di coniugi defunti da villa Celimontana, Parco archeologico del Celio

Il nuovo allestimento del Museo della Forma Urbis consente adesso una piena fruizione della pianta marmorea da parte dei visitatori, favorendo la leggibilità di questo prezioso documento. Sul pavimento della sala principale del museo sono inoltre collocati i frammenti della Forma Urbis, sovrapposti, come base planimetrica, alla Pianta Grande di Giovanni Battista Nolli del 1748.

Il Parco archeologico del Celio e il Museo – la cui apertura si deve a una serie di interventi condotti sotto la direzione scientifica della Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali di Roma Capitale – si inseriscono in un ampio progetto di valorizzazione dell’intera area del Celio, inquadrata in seno al più ampio programma di riqualificazione del Centro Archeologico Monumentale (CArMe) voluto da Roma Capitale.
A breve saranno avviati i lavori di consolidamento e recupero dell’ex Antiquarium Comunale, mentre l’area verde del Celio sarà riqualificata nella vegetazione, nei percorsi, negli affacci verso il Palatino e nelle connessioni con l’area del Colosseo attraverso un progetto a cura del Dipartimento Tutela Ambientale.


Parco archeologico del Celio

Infine, la Nuova Passeggiata Archeologica lungo via di San Gregorio connetterà il Parco del Celio con il Centro Archeologico Monumentale.

Il Parco Archeologico del Celio, a ingresso gratuito (il Museo della Forma Urbis è invece a pagamento) è aperto tutti i giorni dalle 7 alle 17.30 (ora solare) e dalle 7 alle 20 (ora legale). Resterà chiuso il 25 dicembre e il 1° maggio.

 Leggi anche:
• Apertura del Parco archeologico del Celio con il nuovo museo della Forma Urbis



Source link

Robert Capa e Gerda Taro. Una storia d'amore, di guerra e fotografia in mostra a Torino - Torino

Robert Capa e Gerda Taro. Una storia d’amore, di guerra e fotografia in mostra a Torino – Torino



Fred Stein, Gerda Taro and Robert Capa Cafe de Dome, Paris 1936 © Estate Fred Stein | Courtesy International Center of Photography

Torino – Tutto cominciò a Parigi nel 1934, quando Gerta Pohorylle e Endre – poi francesizzato André – Friedmann si incontrano per poi innamorarsi l’anno successivo stringendo un sodalizio artistico e sentimentale destinato a maturare tra i caffé del Quartiere Latino, in guerra come in piazza.
Fuggita dalla Germania nazista lei, emigrato dall’Ungheria lui, in una Parigi in grande fermento, ma invasa da intellettuali e artisti da tutta Europa, dove trovare committenze era sempre più difficile, fu Gerta a inventarsi il personaggio di Robert Capa, un ricco e famoso fotografo americano arrivato da poco nel continente, alter ego con il quale André si identificherà per il resto della sua vita.
Anche lei cambiò nome facendosi chiamare Gerda Taro. Il rapporto professionale e affettivo tra i due, tragicamente interrotto dalla morte della fotografa in Spagna nel 1937, si racconta in una mostra in programma a Torino dal 14 febbraio al 2 giugno, presso il Centro Italiano per la Fotografia.


Robert Capa, Gerda Taro on the Spanish front at Guadalajara in 1937 not long before she was killed, Spain, Robert Capa © International Center of Photography / Magnum Photos

Il percorso, intitolato Robert Capa e Gerda Taro: la fotografia, l’amore, la guerra affiderà a 120 scatti il compito di ripercorrere uno dei momenti cruciali della storia della fotografia del XX secolo. Il 1936 è l’anno decisivo per entrambi. Nel mese di agosto si muovono verso la Spagna per documentare la guerra civile in corso tra i repubblicani e fascisti. Solo un mese più tardi Capa realizzerà il leggendario scatto del Miliziano colpito a morte, mentre Gerda Taro scatterà l’iconica immagine di una miliziana in addestramento, pistola puntata e scarpe con i tacchi, fornendo un punto di vista inedito della guerra fatta e rappresentata da donne.
Accanto ai due fotografi, altri colleghi realizzeranno numerosi altri scatti, testimonianza di un’attiva partecipazione all’evento, sia dal punto di vista del reportage di guerra, sia da quello della vita quotidiana dei soldati, delle soldatesse e della popolazione drammaticamente coinvolta nel conflitto.

Gli scatti di Robert Capa e Gerda Taro inonderanno i maggiori giornali del tempo, da “Vu” a “Regards” a “Life”, conferendo alla coppia – che firma talvolta con un’unica sigla – una solida fama e diverse richieste di lavoro. Tra il 1936 e del 1937 li seguiamo tra Parigi e la Spagna, a documentare gli scioperi nella capitale francese e le elezioni del 1937 che vedono la vittoria del raggruppamento antifascista del Fronte Popolare. Al Convegno Internazionale degli Scrittori Antifascisti a Valencia, Taro immortala personaggi come André Malraux, Ilya Ehrenburg, Tristan Tzara, Anna Seghers.
È il 24 luglio del 1937 quando, poco dopo la vittoria del Fronte Popolare, durante la battaglia di Brunete, in Spagna, Gerda Taro viene involontariamente investita da un carro armato. La sua morte metterà tragicamente fine all’esistenza della prima reporter di guerra.


Gerda Taro, Robert Capa Segovia front, Spain, 1937 International Center of Photography, The Robert Capa and Cornell Capa Archive, Museum Purchase, 2003 | Courtesy International Center of Photography

L’anno successivo, Robert Capa darà alla luce l’epocale volume dedicato alla compagna, intitolato Death in the Making, che racchiude molte delle immagini di entrambi i fotografi, visibili in mostra.
L’intensa stagione che unisce fotografia, guerra e amore di questi due straordinari personaggi si racconta nella mostra di CAMERA a cura di Walter Guadagnini e Monica Poggi attraverso le fotografie di Gerda Taro e quelle di Robert Capa, oltre alla riproduzione di alcuni provini della celebre “valigia messicana”, con 4.500 negativi scattati in Spagna dai due protagonisti e dal loro amico e sodale David Seymour, detto “Chim”.
Di questa valigia si erano perse le tracce nel 1939 quando Capa la affidò a un amico per evitare che i materiali venissero requisiti e distrutti dalle truppe tedesche. Fu ritrovata soltanto nel 2007 a Mexico City, permettendo di attribuire correttamente una serie di immagini delle quali fino ad allora non era chiaro l’autore.
Ad accompagnare l’esposizione sarà un catalogo edito da Dario Cimorelli Editore con i testi dei curatori.
Il percorso si potrà visitare tutti i giorni dalle 11 alle 19. Giovedì dalle 11 alle 21. Ultimo ingresso 30 minuti prima della chiusura.

 Leggi anche:
• Robert Capa e Gerda Taro: la fotografia, l’amore, la guerra



Source link

I Macchiaioli conquistano Palazzo Martinengo - Brescia

I Macchiaioli conquistano Palazzo Martinengo – Brescia



Telemaco Signorini, Renaioli sull’Arno, 1868, Olio su tela, 60 40 cm, Collezione privata

Brescia – Una delle pagine più poetiche della storia dell’arte italiana ed europea rivive a Brescia grazie a una grande mostra dedicata ai Macchiaioli.
Tutto ebbe inizio nel 1862 quando il termine “Macchiaioli” venne coniato da un recensore della Gazzetta del Popolo di Firenze in riferimento a quei pittori che, una decina di anni prima, avevano dato origine a un rinnovamento in chiave antiaccademica della pittura italiana in senso realista. L’accezione (naturalmente dispregiativa) giocava su un doppio senso, strizzando l’occhio al “darsi alla macchia, “agire furtivamente, illegalmente”.
Il recensore mai avrebbe immaginato che quei pittori avrebbero instaurato un dialogo aperto, propositivo e audace con le più autorevoli comunità artistiche dell’Europa del tempo.
Scrigno di quella rivoluzione che nella Firenze del secondo Ottocento diede vita a una delle più originali e innovative avanguardie artistiche europee del XIX secolo, sarà, dal 20 gennaio al 9 giugno, Palazzo Martinengo.


Telemaco Signorini, Renaioli sull’Arno, 1868, Olio su tela, 60 x 40 cm, Collezione privata

Nelle sale della storica residenza cinquecentesca, nel cuore di Brescia, Francesca Dini e Davide Dotti cuciono un viaggio attraverso oltre cento capolavori di Fattori, Lega, Signorini, Cabianca, Borrani, Abbati, solo per citare alcuni artisti in mostra.
Le opere provengono in gran parte da collezioni private, solitamente inaccessibili, e da importanti istituzioni museali, dalle Gallerie degli Uffizi di Firenze ai Musei Civici di Udine, dall’Istituto Matteucci di Viareggio alla Fondazione CR Firenze.

“Per la prima volta – commenta Francesca Dini – la mostra storicizza l’evoluzione della poetica macchiaiola in senso naturalista, messa in atto dai macchiaioli di seconda generazione, Angelo e Adolfo Tommasi, Francesco e Luigi Gioli, Egisto Ferroni, Niccolò Cannicci ed Eugenio Cecconi, attraverso il serrato dialogo con la critica del tempo. La scaccia delle anitre di Angelo Tommasi, Ritorno dalla fonte di Egisto Ferroni, Acquaiola di Francesco Gioli sono opere emblematiche di questo nuovo indirizzo che ebbe il placet degli anziani macchiaioli e il sostegno del critico e uomo di stato Ferdinando Martini”.


Raffaello Sernesi, Marina a Castiglioncello, 1864, Collezione privata

Toccherà a dieci sezioni ripercorrere l’entusiasmante avventura di questi pittori progressisti che, prendendo le distanze dall’istituzione accademica nella quale si erano formati sotto l’influenza di campioni del Romanticismo come Hayez e Bezzuoli, scrissero in breve tempo una delle pagine più poetiche della storia dell’arte.
Con i valori universali che la sottendono, l’arte dei Macchiaioli risulta così moderna e attuale. Ad avvolgere i visitatori con la loro qualità pittorica, lirica e luministica saranno opere come le Cucitrici di camicie rosse di Borrani, la Raccolta del fieno in maremma di Fattori, I fidanzati di Lega e Pascoli a Castiglioncello di Signorini.
Straordinari capolavori come Il mercato di san Godenzo e Pro patria mori di Giovanni Fattori, insieme alla Gabbrigiana in piedi di Silvestro Lega, a Il mattutino di Cabianca e a Una via del mercato vecchio a Firenze di Telemaco Signorini conducono il visitatore al finale approdo novecentesco di questi grandi maestri.


Angelo Tommasi, La caccia alle anatre, 1889. Olio su tela. Udine, Galleria d’Arte Moderna

Il pubblico si muoverà quindi tra il Caffè Michelangiolo di Firenze, Castiglioncello, Piagentina, la Maremma e la Liguria, luoghi familiari a questi maestri a confronto con gli altri artisti e con le diverse scuole pittoriche europee.

La mostra si potrà visitare mercoledì, giovedì e venerdì dalle 9 alle 17; sabato, domenica e festivi dalle 10 alle 20. La biglietteria chiude un’ora prima dell’orario di chiusura.

 Leggi anche:
• A Brescia arrivano i Macchiaioli



Source link

E luce fu. Roberta Cipriani racconta la sua nuova mostra - Roma

E luce fu. Roberta Cipriani racconta la sua nuova mostra – Roma



Roberta Cipriani, L’Albero della Vita, 2018. Collezione Maria Piera Leonetti di Santo Janni, Capalbio

Roma – Accendere la luce, materialmente e simbolicamente. È il progetto di Roberta Cipriani e Daria Ripandelli, due artiste desiderose di reinventare il rapporto dell’umanità con la Terra e di tornare alla natura con una nuova consapevolezza. Un messaggio affidato a sculture, dipinti e installazioni che ammireremo a Roma nella mostra Generazione Luce, in programma presso la galleria Borghini Arte Contemporanea dal 17 gennaio al 18 febbraio 2024. Idee, materiali, fonti di ispirazione eterogenee si mescolano nel mondo di Daria e Roberta: la prima, romana, realizza sculture in resina ispirate a microrganismi dalle forme e dai colori mutanti; la seconda, toscana, lavora con metalli, marmo, terracotta e luci a led, producendo opere sospese tra il contemporaneo e le profondità di un tempo ancestrale.




Roberta Cipriani per Generazione Luce. Allestimento presso Borghini Arte Contemporanea, Roma I Foto Roberta Cipriani


“Nella mia arte uso il linguaggio della luce per far conoscere messaggi antichi: simboli che recupero dalla geometria sacra, dall’alchimia, dal mondo orientale, molti dei quali erano già adoperati da Leonardo Da Vinci, grande studioso dell’ermetismo”, racconta Roberta ad ARTE.it. Tra questi simboli c’è l’albero della vita, un’immagine potente ed evocativa presente in numerose culture e religioni, dove di volta in volta si carica di significati mistici ed esoterici. L’Albero della Vita è anche l’opera emblematica del lavoro di Roberta, fortemente voluta in mostra dalla gallerista Tamara Borghini.
“È un’installazione in Corten nata in Italia nel 2018, e poi nel 2019 in Nuova Zelanda”, spiega l’artista: “È il simbolo del risveglio delle coscienze e rappresenta anche il nostro percorso tra cielo e terra, il ricongiungimento al divino. Non è casuale che i miei due alberi siano nati ai poli opposti del pianeta, tanto più che un anno dopo, nel 2020, sono stata chiamata a sviluppare un progetto per la salvaguardia della Terra: un globo luminoso che contiene numerosi riferimenti al mio percorso artistico, ma soprattutto frasi che esprimono messaggi d’amore da far riecheggiare dentro di noi. Siamo tutti connessi, tra di noi e con la terra: questo è il significato dell’Albero della Vita per me”.




Roberta Cipriani per Generazione Luce. Allestimento presso Borghini Arte Contemporanea, Roma I Foto Roberta Cipriani
 
Nel visionario progetto di Roberta Cipriani l’Albero della Vita non è isolato, ma si erge rigoglioso all’interno di una vasta installazione dal titolo Rêve de Feu (Sogni di fuoco): una collezione di opere luminose che, tutte insieme, ben rappresentano l’immaginario dell’artista toscana. “Rêve de Feu è composta da quelli che io chiamo ‘guerrieri di luce’, creature che immagino ci accompagnino come angeli custodi nel nostro percorso sulla terra, fino all’Albero della Vita che rappresenta la consapevolezza, il risveglio delle nostre coscienze”.
 
Accanto al sogno, Roberta ha voluto presentarci realtà più tangibili: a rappresentarle sono sculture realizzate in materiali tradizionali come il ferro – che l’artista impreziosisce con pigmenti da lei stessa prodotti – il bronzo, il marmo e la terracotta, questi ultimi legati alle tradizioni della sua terra, la Toscana. “Mentre i Rêve de Feu sono impalpabili, privi di forma umana, nelle sculture ho voluto dare un corpo alle mie entità simboliche, che diventano così angeli terreni, angeli con radici, unioni di due angeli con un’ala sola…. Fusione damore, per esempio, è un’opera che ho realizzato sia in cotto che in marmo. Nasce dal principio dello yin e dallo yang ed è l’intreccio di due corpi che diventano tutt’uno, fondendo maschile e femminile”.




Roberta Cipriani per Generazione Luce. Allestimento presso Borghini Arte Contemporanea, Roma I Foto Roberta Cipriani
 
Uno speciale microcosmo che si espande fino ad abbracciare il pianeta e l’intero universo, come esemplifica la serie di dipinti dedicata al tema della creazione: “Una sorta di polittico composto da sei quadri”, anticipa l’artista: “Si parte dal primo raggio di luce che ha dato vita all’universo, per proseguire con i cinque elementi: acqua, aria, fuoco, terra… L’ultimo elemento è la quintessenza di Aristotele, l’energia che tutto muove. Su due di questi quadri sono incisi con il fuoco messaggi di pace e amore. Il fuoco è colui che ci scalda e ci illumina, un elemento fondamentale perché ogni cosa si manifesta attraverso la luce. È anche il mio elemento perché sono nata sotto il segno dell’Ariete, come la mia città, Firenze”.
 
Mentre gli occhi si perdono nella magia delle sue installazioni luminose, Roberta ci accompagna verso le profondità dell’Essere, lungo la trama armoniosa che tutto connette, alla scoperta delle radici e delle potenzialità delle nostre esistenze: “Da sempre il mio intento è risvegliare attraverso l’arte la nostra luce interiore”, dice: “Vorrei che le persone potessero collegarsi alla propria anima, al proprio sentire, alla propria spiritualità. Sul tronco in Corten dell’Albero della Vita sono incise delle frasi. Quella in cui mi identifico più profondamente dice: il cielo si riflette sulla terra e dalla terra si alza il fuoco d’amore verso Dio”.




Roberta Cipriani, L’Albero della Vita, 2018. Collezione Maria Piera Leonetti di Santo Janni, Capalbio I Courtesy Roberta Cipriani
 
 
 
 
 
 
 



Source link